Dopo un lungo bivacco in aeroporto, un volo di circa tre ore e 940 km più tardi, atterriamo finalmente all'Aeroporto Internazionale del Kilimangiaro (JRO). Situato tra la capitale, Arusha, e Moshi, è l'aeroporto principale per chi visita i parchi nazionali del nord della Tanzania.
Prima di tutto, facciamo una lunga fila all'esterno per il controllo del green pass e del certificato di vaccinazione contro la febbre gialla, necessario per l'ingresso in Tanzania. Poi affrontiamo il complicato controllo per il visto d'entrata, che cinque di noi non superano a causa di un errore di compilazione non specificato: per loro, l'Isola dei Famosi continua, a patto di pagare nuovamente 100$ per ricompilarlo al momento.
Ci ammassiamo in una stanza poco più grande del mio soggiorno per il ritiro bagagli: il nastro è spento, il locale è pieno di zaini e valigie, e le persone si muovono con cautela nei pochi centimetri di pavimento libero per cercare i propri averi. Dopo essermi ricongiunta con il mio zaino (per fortuna), mi rimetto in fila davanti alla bancarella di un gestore telefonico locale per acquistare una sim card. L'operazione richiede quasi più tempo dei controlli, ma è l'unico modo per avere una connessione dati a cifre ragionevoli. Inoltre, posso avvisare a casa che sono ancora in vita, mandare messaggi di cui potrei pentirmi, o postare su Instagram.
Poi partiamo su un pulmino scassato lungo strade assolate e trafficatissime. Alla fine, svoltiamo in una stradina polverosa costeggiata da casette basse. In fondo alla via, c'è un albergo un po' pretenzioso, e infatti non ancora finito: dormiremo lì. Davanti c'è una baracchetta dipinta di azzurro, adibita a bar. Con un po' di diffidenza iniziale, ci servono delle birre fresche. Dopo una corsa in apecar e una cena indiana sotto i portici, scopriamo che la sera al baretto mettono perfino luci colorate e musica dance.
Le lenzuola zebrate sono un po' originali ma pulite. Fino a qui tutto bene.
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