Quando arrivo a Bangkok sono le 6:05 del mattino. Sconvolta dal fuso orario e da 24 ore trascorse tra aerei e aeroporti, mi ritrovo a fissare il nastro trasportatore delle valigie. Il mio zaino non arriva. Dev'essere rimasto a Istanbul, abbandonato mentre noi correvamo attraverso mezzo aeroporto per non perdere la coincidenza, insieme agli altri bagagli del volo in ritardo da Malpensa. Pazienza.
Già dal Lost&Found si percepisce l’odore inconfondibile di Bangkok: un misto di spezie, smog e umidità che ti avvolge come una coperta, anche al chiuso. Fuori, ad aspettarci, c'è anche il caldo. Dopo una breve sosta per acquistare delle SIM card locali e cambiare un po' di contanti in Baht, saltiamo su un minivan. In pochi minuti siamo già bloccati nel leggendario traffico della capitale.
Bangkok è proprio come nei film: un’esplosione di vita, cultura e contrasti. Grattacieli scintillanti svettano accanto a Buddha dorati e mercati caotici. Ogni angolo sembra raccontare una storia diversa: bar alla moda e ristoranti pettinati si trovano a pochi passi da bancarelle che sfrigolano di Pad Thai, mentre gli antichi templi si affacciano su strade invase da motorini e tuk-tuk.
Bangkok è una città che non dorme mai, e a giudicare dal caos mattutino fuori dal finestrino del nostro minivan, nemmeno io avrò molto tempo per farlo. Ma va bene così: anch'io non dormo, credo che andremo d'accordo.
La nostra prima sosta è il Wat Traimit, il Tempio del Buddha d’Oro, che si staglia contro il cielo azzurro nel cuore di Chinatown. Prima di affrontarlo, ci siamo concessi un grosso bicchiere di caffè ghiacciato e abbiamo rispettato il rituale: scarpe tolte, spalle coperte. Il tempio è famoso per ospitare la più grande statua del Buddha in oro massiccio al mondo, alta circa tre metri e pesante ben 5,5 tonnellate. Risalente al XIII-XV secolo, la statua fu ricoperta di gesso per sfuggire alle razzie durante le invasioni birmane e dimenticata per secoli.
Il suo vero valore fu scoperto per caso negli anni '50, quando, durante un trasloco, una parte del gesso si scheggiò, rivelando il prezioso oro sottostante. Da allora, la statua è tornata al suo splendore originale, e il tempio, pur essendo relativamente piccolo, è diventato una tappa imperdibile per il suo significato storico e simbolico.
Ai piedi del Wat Traimit, proprio accanto alla caffetteria moderna con l'aria condizionata a palla dove ci siamo rifocillati, c'è una bancarella dove una signora frigge con maestria quelli che sembrano piccoli tacos arancioni. Golosi, curiosi e ben forniti di fermenti lattici, decidiamo di assaggiare. Scopriamo così che non sono salati, come pensavamo, ma dolci. Forse al cocco, forse no, ma comunque deliziosi. Inizio a sospettare che tutto quello che si dice sullo street food di Bangkok sia vero. Una cosa è certa: non tornerò da questo viaggio più magra.
La seconda tappa è Pak Khlong Talat, il famoso mercato dei fiori di Bangkok. Questo luogo pulsa di colori, profumi e vita a qualsiasi ora del giorno e della notte. Situato vicino al fiume Chao Phraya, è il mercato più grande della Thailandia, una vera gioia per i sensi. Bancarelle stracolme di rose, orchidee, garofani e mille altre varietà di fiori si alternano a profumati bastoncini d’incenso e candele, spesso destinati alle offerte nei templi.
L’atmosfera qui è unica: fioristi che lavorano senza sosta, mani veloci che intrecciano ghirlande di gelsomini, e camion carichi di fiori freschi che arrivano dalle campagne circostanti. Molti clienti sono monaci, commercianti e locali in cerca di decorazioni per cerimonie o eventi, ma ci sono anche turisti curiosi come noi. La nostra presenza, però, non sembra disturbare nessuno.
Il momento migliore per visitare il mercato è la mattina presto, quando l’aria è ancora (relativamente) fresca e le bancarelle sono al massimo del loro splendore. Approfittiamo delle esposizioni di frutta colorata e di altre prelibatezze strane ma invitanti per provare uno spuntino da uno dei tanti venditori ambulanti. Del resto, ci serve energia per la prossima fermata.
Ultima fatica: Wat Saket, il Tempio della Montagna dorata. Questo tempio, situato su una collina artificiale, offre una vista panoramica mozzafiato sulla città. La salita non è particolarmente impegnativa, ma i 344 gradini a spirale richiedono un po’ di fiato, soprattutto con l’umidità thailandese che non perdona. Fortunatamente, l’intero percorso è costellato di statue, gong e campanelle che rendono più suggestiva la salita. La chedi dorata, che svetta sulla sommità, contiene reliquie sacre del Buddha, attirando pellegrini da tutto il Paese, specialmente durante la festa annuale Loy Krathong, quando il tempio si illumina di lanterne e fiori.
Visitare Wat Saket è un’esperienza spirituale e culturale, ma anche una pausa dal caos cittadino. Il silenzio del tempio e la brezza che si avverte in cima sono un sollievo benvenuto dopo una giornata immersi nel trambusto di Bangkok.
Poi, finalmente si mangia! Pad Thai Fai Ta Lu segna il nostro primo incontro con il Pad Thai, sarà l'inizio di una bella storia d'amore. Questo piccolo ristorante, gestito dallo chef P’Noi, è un’oasi nel caos di Bangkok.
Il nome, “Fai Ta Lu”, significa “fiamma che passa attraverso”, e non potrebbe essere più azzeccato: ogni piatto viene preparato su un fuoco altissimo, regalando ai noodles quel caratteristico sapore affumicato e perfettamente caramellato. Unico difetto? Finisce troppo presto.
Dopo aver riaffrontato l’immancabile traffico di Bangkok, raggiungiamo finalmente il nostro alberghetto, che sembra essersi sviluppato in verticale in un vicolo stretto. È spartano, ma pulito, e tanto basta per chi ormai vive in una dimensione dove lo spazio e il tempo non hanno più significato.
Dopo una rapida rinfrescata – per fortuna, sono il tipo di persona che si porta un cambio completo nel bagaglio a mano – siamo pronti per immergerci nell’atmosfera vibrante di Khao San Road. Questa è la mecca dei backpacker: un mix irresistibile di bar, street food fumanti, negozi kitsch e un’infinità di centri massaggi. Passeggiamo tra le luci al neon, a caccia di un posto per l’aperitivo, godendoci la libertà di ordinare cocktail senza la paranoia di farci togliere il ghiaccio.
Dopo aver svoltato la cena con gli spiedini a base di frattaglie speziate di una bancarella, cerchiamo di dare un senso alla serata: sta piovendo a dirotto, quindi niente Sky bar.
Ripariamo in un locale per bere qualcosa e, al secondo shottino, chiamiamo dei tuk tuk perché ci accompagnino nel quartiere a luci rosse.
Diciamo che lo spettacolo di ping pong è stato un'esperienza formativa. Una team building. Quando entriamo, le ragazze sbadigliano annoiate. Una sta allattando un neonato. Sui tavolini ci sono delle racchette: "Servono per proteggere la faccia?" dico, e ancora non so che sarà proprio così che andrà.
Quando usciamo, non siamo più quelli di prima.
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