Giorno 5 - Kuching

 

Secondo un pezzo di The Vision che mi ha fatta incazzare da morire, noi viziatelli abituati a viaggiare dovremmo cogliere l'occasione che il Covid ci offre di tornare ad apprezzare l'unicità del viaggio come esperienza più vera e autentica (mi viene da vomitare). Personalmente, non avevo bisogno di una pandemia per apprezzare un viaggio. Era già la cosa per cui spendevo di più e che aspettavo e sognavo per tutto l'anno.

Ecco perché questo è in assoluto il viaggio più difficile da raccontare: avrei dovuto divertirmi di più. Ma (anche se avessi saputo che sarebbe stato l'ultimo) avrei davvero potuto divertirmi di più?

Tra la fine del 2018 e l'inizio del 2019 avevo cambiato lavoro e rotto con il fidanzato. Mi ero dovuta inventare una vita tutta da capo, e per quanto fossi abbastanza contenta ero arrivata ad agosto molto stanca. In primavera mi ero invaghita di uno con cui le cose non erano andate come volevo, e avevo deciso di distrarmi con una serie di Tinder Date quasi tutti molto discutibili ma ottimi come aneddoti per far ridere i miei amici. "Un'estate pazza, a settembre poi vediamo", l'idea era partire per un posto dove non prendessero i cellulari per dare il solito strappo netto, staccare da tutto per un po', e poi vediamo.

Uno dei problemi è stato che in Malesia quasi dappertutto i cellulari prendessero benissimo.

Quando ho attraversavo i parchi americani in macchina, adoravo che i cavalli o i cervi ci attraversassero la strada. L'emozione vera di vedere degli animali selvatici in libertà però l'ho provata per la prima volta in Uganda, quando una giraffa si è messa a correre e io mi sono commossa. Vedere gli oranghi nella loro riserva, circondati da gente che li fotografava mentre i ranger offrivano loro dei biberon di latte, mi ha messo un senso di disagio difficile da mandare via.

Per vedere i gorilla di montagna ci eravamo svegliati che ancora era buio, li avevamo trovati dopo ore di trekking in piccoli gruppi e in silenzio, per non disturbare. Stavolta invece era bastato percorrere qualche centinaia di metri di sentiero insieme ad altri turisti e aspettare. Non li ho quasi nemmeno fotografati.

Kuching significa "città dei gatti" e, qualunque sia il motivo, a giudicare dal tema dei molti graffiti sui muri, la faccenda viene presa molto seriamente. Fa caldissimo, e girare per le strade assolate alle 14 finisce per far saltare i nervi a tutti. Il pomeriggio naufraga ai tavolini di un baretto, con delle birre ghiacciate, nel pieno scazzo generale. Poi succedono due cose assolutamente inaspettate: la prima è un tramonto incredibilmente rosa sul fiume, la seconda è che uno di noi, quando ormai siamo arrivati nel cuore della più affollata e tamarra fiera asiatica che abbia mai visto, non trova più il passaporto.


Che non sia una bella idea perdere i documenti al quinto giorno di un viaggio in un altro continente, che prevede diversi voli interni e svariati trasferimenti, non c'è nemmo il bisogno di dirlo.

Decidiamo di dividerci come nei film horror, e di tornare indietro a cercarlo, anche se ormai avevamo già fatto quattro o cinque chilometri. E incredibilmente lo troviamo. Era caduto al bar, il cameriere era anche uscito per richiamarci, ma non lo avevamo sentito (non eravamo ubriachi come può sembrare, è il caldo, giuro). Ritrovarci tutti nella folla della fiera è complicatissimo, ma alla fine ci riusciamo.

L'attimo di euforia in cui ci siamo ritrovati e ci siamo abbracciati mentre Fra brandiva il passaporto (nella foto aveva ancora i capelli) è stato uno dei più belli di tutto il viaggio.


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