Day 13, Labuan Bajo


I marinai indonesiani erano stati così carini da lasciarci su quel minuscolo atollo tutto bianco finché si è potuto.
Ho capito che qualcosa non andava quando ho nuotato fino alla barca faticando più del solito; mi sono aggrappata forte alla scaletta di legno e ho pensato: «Ma perché ci stiamo già muovendo se non siamo ancora tutti su?».
È che non ci stavamo muovendo, era solo la corrente.

Dopo neanche venti minuti di navigazione, le cose hanno iniziato a rotolare e a cadere dal tavolo e le onde ad infrangersi bagnando il legno della prua, fino a noi sotto il tendalino.
A qualcuno è venuta la nausea.
Siamo corsi a raccogliere il bucato steso, prima che il vento lo strappasse via. Abbiamo raccolto in fretta i cellulari, le casse, i caricabatterie, le powerbank.
Sono scesa in cabina a mettermi la cerata, andando a sbattere contro le pareti. Mentre risalivo, la barca rollava e beccheggiava tanto che ho fatto gli ultimi tre gradini con un salto e sono stata sbalzata sul ponte.
Adrenalina a palla.
L'equipaggio ha spento tutte le luci a bordo per vedere meglio durante la navigazione. In tre ci siamo legati all'albero di prua con le braccia agganciate a catena.

«Godetevi le onde», ha detto Niccolò.
«È fighissimo», ho detto io.
«Una cosa che proprio non pensavo che avrei fatto, era guardare una stellata così durante una burrasca», ha detto Martina, e aveva ragione.
Intanto le onde ci schiaffeggiavano, e il vento mi tirava fuori dal cappuccio ciocche di capelli che mi finivano in bocca mentre ridevo.

A poppa, il ragazzo incaricato di tagliare le teste d'aglio (e questo rende l'idea di quante ce ne siano nella cucina indonesiana) stava tagliando le teste d'aglio. Tranquillo. Ci siamo fatti un selfie.
Poi piano piano le onde sisono calmate, gli altri hanno iniziato a uscire da sotto coperta e siamo arrivati in una baia illuminata da tante altre barche che avevano riparato lì per la notte.
Senza che ce ne fossimo accorti, ci siamo trovti sotto il naso un piattone di quella che sembrava pasta alla Norma, che in tutto questo casino l'equipaggio era riuscito in qualche modo a preparare. Era buonissima.

Le assi del ponte, però, erano irrimediabilmente fradice.
«Che hai? Stai pensando a dove dormire?»
«Eh»
«Rivuoi il letto in cabina che mi avevi ceduto e dormo fuori io?»
«No, sarebbe davvero da stronza. Dormo fuori. In qualche modo»
«Ma te pare? Nessuno dorme fuori. Ci stringiamo»
Ci siamo stretti.
Anche se giù mi mancava un po' l'aria, e russavano in due. A un certo punto, anche in tre.

Cambiarsi al mattino era quasi impossibile, perché c'era sempre qualcuno che entrava o usciva.
Era finita la Nutella, e anche le otto casse di Bintang.
Era ora di scendere.

A terra, per prima cosa mi sono guardata allo specchio per la prima volta da giorni, e ho verificato di avere ancora una faccia.
Poi ci siamo divisi un pezzo di sapone di Marsiglia e ci siamo messi a fare il bucato nei secchi, nel patio. Quando abbiamo finito, sembrava un accampamento di zingari, con gli stendini e i fili da bucato tirati.
Niccolò se l'è presa con me e mi ha lanciato addosso le mutande a pois di Riccardo, anche se io non c'entravo niente.

All'imbrunire, una corsa sul retro di un pick up ci ha portato al porto, dove abbiamo cercato inutilmente di farci fare un massaggio e siamo finiti a bere Bintang nel bar di un diving club gestito da australiani, ritrovandoci nel pieno della festa di compleanno di un cameriere indonesiano, che ci ha offerto una fetta di torta zuccherosissima e ha voluto fare un selfie con noi.
Poi siamo andati a cena in un ristorante pieno di surfisti, con il biliardo e il terrazzo sulla baia.
(I surfisti indonesiani sembrano più degli stregoni woodoo, ma mi fanno simpatia)

Mi sembrava ancora di sentire il rollio del mare, quando camminavo.


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