Day 17, Kelimutu


La leggenda vuole che più si arriva tardi nel posto dove si dovrà pernottare e più aumenta la possibilità che ci siano dei problemi, e quando siamo arrivati a Kelimutu era molto tardi.
L'ostello era una specie di stamberga di bambù arroccata sul fianco della montagna e ricoperta di fili di lucine colorate, e non aveva posto per tutti.
Andrea aveva fatto una scenata epica, ma non c'era soluzione, così io e altri cinque siamo finiti nella depandance, un'altra stamberga stavolta in muratura, in mezzo al nulla, 10 minuti di pulmino più su, ed eravamo stati lasciati a noi stessi.
Giusto il tempo di una tonificante doccia gelata, ed era saltata la corrente. E subito, eravamo tutti e sei nel buio totale, con i musi fuori dalle porte. Qualcuno con la torcia frontale in testa.

«Oh raga, ma qua è saltato tutto?»
«Cosa facciamo?»
«Eh, cosa vuoi fare? Tanto non c'è nessuno, sembra un film horror»
«Andiamo a letto, che è mezzanotte e alle tre vengono a prenderci»

Mi ero appena infilata nel sacco a pelo che avevo steso su una discutibile coperta con gli orsacchiotti, con già i vestiti per il trek del giorno dopo addosso, quando era tornata la corrente e di botto si erano riaccese tutte le luci e l'acqua aveva ricominciato a scorrere a fiumi dal rubinetto. Ovvio.
Di nuovo nel sacco a pelo, mi era sembrato di aver dormito solo un minuto, rannicchiata sul fondo fino a ritirare anche la testa come le testuggini.
L'autista stava facendo sfoggio dei poderosi bassi del suo impianto con un pezzo di Skrillex a tutto volume, prontamente silenziato appena abbiamo preso l'altra parte del gruppo, sicuramente per non turbare di nuovo Andrea.

Alle tre e mezza avevamo iniziato la scalata verso i tre laghi vulcanici, dove avremmo visto l'alba, nel buio nerissimo e con le torce frontali d'ordinanza.
Non era un trek particolarmente difficile, anche se l'orario, le due ore di sonno dormite e lo stomaco vuoto aggiungevano un po' di difficoltà.
In cima era ancora buio e faceva un freddo becco.
Il vento ci frustava e noi cercavamo di fare gruppo come i pinguini, riparandoci con i cappucci in testa, stratificando felpe e sarong. Poi finalmente l'alba.
Credo che le foto di quel mattino siano le più belle, tra quelle che abbiamo tutti insieme.
Siamo assonnati, intirizziti e impresentabili, ma siamo felici.

Tornati alla nostra stamberga, dovevamo chiudere gli zainoni e fare un po' di colazione. C'era una piccola signora indonesiana in camicia da notte rosa.
«Ask her for breakfast», ha detto la guida.
«Allora siamo a posto», ho detto io.
E invece la signora ha fatto comparire non si sa come dei thermos di tè e caffè, un enorme vassoio di frutta e pancake per tutti.
Poi, dopo una sosta al mercato e una in una cittadina dove non si trovava nulla da mangiare (sono sinceramente stupita di non essermi presa la salmonella nel posto dove abbiamo pranzato), abbiamo preso il nostro ultimo volo interno per Bali.
Avremmo passato la serata lì, e il mattino dopo saremmo partiti con il traghetto per Lombok.

Il piccolo hotel a Kuta Beach dove stavamo aveva una piccola piscina («GRAZIE ANDREA!») in pietra dove galleggiavano dei fiori bianchi. E anche se eravamo stanchi e così non avremmo avuto più molto tempo per prepararci a uscire, ci siamo comunque buttati per dieci minuti di torrette e venti a bere Bintang in acqua.

Mi sono di nuovo ricordata che erano gli ultimi giorni, ma ho scacciato il pensiero.

Kuta Beach è un po' una Riccione indonesiana, ma dopo Kelimutu potevamo starci.
E anche fare serata all'Hard Rock Cafè, dove si esibiva una cover band che ha massacrato il meglio del repertorio degli Oasis poteva starci.
Anzi, mi sono proprio divertita.
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